Pagina:Pirandello - Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze, Bemporad, 1925.djvu/19

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ciava via una grossa boccata di fumo e restava un pezzo, ascoltandomi, con l’enorme bocca tumida aperta, come quella di un’antica maschera comica. Gli occhi sorcigni, furbi, vivi vivi, gli guizzavano intanto qua e là come presi in trappola nella faccia larga, rude, massiccia, da villano feroce e ingenuo. Credevo rimanesse in quell’atteggiamento, con la bocca aperta, per ridere di me, delle mie disgrazie e delle mie speranze. Ma, a un certo punto, lo vidi fermare in mezzo alla via vegliata lugubremente dai fanali e gli sentii dir forte nel silenzio della notte:

— Scusa, e come so io del monte, dell’albero, del mare? Il monte è monte, perchè io dico: Quello è un monte. Il che significa: io sono il monte. Che siamo noi? Siamo quello di cui a volta a volta ci accorgiamo. Io sono il monte, io l’albero, io il mare. Io sono anche la stella, che ignora sè stessa! —

Restai sbalordito. Ma per poco. Ho anch’io — inestirpabilmente radicata nel più profondo del mio essere — la stessa malattia dell’amico mio.

La quale, a mio credere, dimostra nel modo più chiaro, che tutto quello che avviene, forse avviene perchè la terra non è fatta tanto per gli uomini, quanto per le bestie. Perchè le bestie hanno in sè da natura solo quel tanto che loro basta ed è necessario per vivere nelle condizioni, a cui furono, ciascuna secondo la propria specie, ordinate; laddove gli uomini hanno in sè un superfluo, che di continuo inutilmente li tormenta, non facendoli mai paghi di nessuna condizione e sempre lasciandoli incerti del loro destino. Superfluo inesplicabile, chi per darsi uno sfogo crea nella natura un mondo