Pagina:Pirandello - Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze, Bemporad, 1925.djvu/23

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gliava a traverso i vetri sudici. Mi fermai davanti a quel portone mezzo chiuso e mezzo aperto, e lessi su l’arco:

OSPIZIO DI MENDICITÀ.

— Tu dormi qua?

— E ci mangio anche. Ciotole di minestre squisite. In ottima compagnia. Vieni: sono di casa. —

Difatti, il vecchio portinajo e due altri addetti alla sorveglianza dell’ospizio, raccolti e curvi tutti e tre attorno a un braciere di rame lo accolsero come un ospite consueto, salutandolo coi gesti e con la voce dalla bacheca dell’androne rintronante:

— Buona sera, signor Professore. —

Simone Pau mi prevenne, cupo, con molta serietà, che non mi facessi illusioni, perchè in quell’albergo non avrei potuto dormire per oltre sei notti di seguito. Mi spiegò, che ogni sei notti bisognava che ne passassi fuori per lo meno una all’aperto, per poi ripigliare la serie.

Io, dormire là?

Innanzi a quei tre sorveglianti, ascoltai la spiegazione con un sorriso afflitto, che pur mi nuotava lieve lieve su le labbra, come per tenermi l’anima a galla e impedirle di sprofondare nella vergogna di quel basso fondo.

Quantunque in misere condizioni e con poche lire in tasca, ero vestito bene, coi guanti alle mani, le ghette ai piedi. Volevo prendere l’avventura, con quel sorriso, come un capriccio bislacco del mio strano amico. Ma Simone Pau se n’irritò:

— Non ti par serio?

— No, caro, veramente non mi par serio.