Pagina:Pirandello - Uno nessuno e centomila, Milano, Mondadori, 1936.djvu/113

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Perchè, incamminandomi verso quel primo esperimento, andavo a pórre graziosamente la mia volontà fuori di me, come un fazzoletto che mi cavassi di tasca. Volevo compiere un atto che non doveva esser mio, ma di quell’ombra di me che viveva realtà in un altro; così solida e vera che avrei potuto togliermi il cappello e salutarla, se per dannata necessità non avessi dovuto incontrarla e salutarla viva, non propriamente in me, ma nel mio stesso corpo, il quale, non essendo per sè nessuno, poteva esser mio ed era mio in quanto rappresentava me a me stesso, ma poteva anche essere ed era di quell’ombra, di quelle centomila ombre che mi rappresentavano in centomila modi vivo e diverso ai centomila altri.

Difatti, non andavo forse incontro al signor Vitangelo Moscarda per giocargli un brutto tiro? Eh! signori, sì, un brutto tiro (scusatemi tutti questi ammiccamenti; ma ho bisogno di ammiccare, d’ammiccare così, perchè, non potendo sapere come v’appajo in questo momento, tiro anche, con questi ammiccamenti, a indovinare) cioè, a fargli compiere un atto del tutto contrario a lui e incoerente: un atto che, distruggendo di colpo la logica della sua realtà, lo annientasse così agli occhi di Marco di Dio come di tanti altri?

Senza intendere, sciagurato! che la conseguenza d’un simile atto non poteva esser quella che m’immaginavo: di presentarmi cioè a domandare a tutti, dopo:

— Vedete adesso, signori, che non è vero niente che io sia quell’usurajo che voi volete vedere in me? —