Pagina:Pirandello - Uno nessuno e centomila, Milano, Mondadori, 1936.djvu/176

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Diventavo “uno„.

Io.

Io che ora mi volevo così.

Io che ora mi sentivo così.

Finalmente.

Non più usurajo (basta con quella banca!): e non più Gengè (basta con quella marionetta!).

Ma il cuore seguitava a tumultuarmi in petto. Mi toglieva il respiro. Aprivo e chiudevo le mani, affondandomi le unghie nella carne. E appena, senza saperlo, mi grattavo con una mano il palmo dell’altra, raggirandomi ancora per la stanza, gangheggiavo come un cavallo che non soffra il morso. Farneticavo.

— Ma io, uno, chi? chi? —

Se non avevo più occhi per vedermi da me come uno anche per me? Gli occhi, gli occhi di tutti gli altri seguitavo a vedermeli addosso, ma ugualmente senza poter sapere come ora m’avrebbero veduto in questa mia neonata volontà, se io stesso non sapevo ancora come sarei consistito per me.

Non più Gengè.

Un altro.

Avevo proprio voluto questo.

Ma che altro avevo io dentro, se non questo tormento che mi scopriva nessuno e centomila?

Questa mia nuova volontà, questo mio nuovo sentimento potevano insorgere ciechi per la ferita in un punto vivo di me che non sapevo, ma subito cadevano, cadevano sotto la terribile fissità di quella luce che folgorava tetra da quanto avevo scoperto.