Pagina:Pirandello - Uno nessuno e centomila, Milano, Mondadori, 1936.djvu/68

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sumevano per lei, quali parole di Gengè, era tutt’altro. Certe parole che, dette da me o da un altro, non le avrebbero dato dolore, dette da Gengè, la facevano piangere, perchè in bocca di Gengè assumevano chi sa quale altro valore; e la facevano piangere, sissignori.

Io dunque parlavo per me solo. Ella parlava col suo Gengè. E questi le rispondeva per bocca mia in un modo che a me restava al tutto ignoto. E non è credibile, come diventassero sciocche, false, senza costrutto tutte le cose ch’io le dicevo e che ella mi ripeteva.

— Ma come? — le domandavo. — Io ho detto così?

— Sì, Gengè mio, proprio così! —

Ecco: erano di Gengè suo quelle sciocchezze; ma non erano sciocchezze: tutt’altro! Era il modo di pensare di Gengè, quello.

E io, ah come lo avrei schiaffeggiato, bastonato, sbranato! Ma non lo potevo toccare. Perchè, non ostanti i dispiaceri che le cagionava, le sciocchezze che diceva, Gengè era molto amato da mia moglie Dida; rispondeva per lei, così com’era, all’ideale del buon marito, a cui qualche lieve difetto si perdona in grazia di tant’altre buone qualità.

Se io non volevo che Dida mia moglie andasse a cercare in un altro il suo ideale, non dovevo toccare quel suo Gengè.

In principio pensavo che forse i miei sentimenti erano troppo complicati; i miei pensieri, troppo astrusi; i miei gusti, troppo insoliti; e che perciò mia moglie,