Pagina:Pirandello - Uno nessuno e centomila, Milano, Mondadori, 1936.djvu/87

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— Già, — dissi — che cosa faccio io? —

Dida, allora, stette un poco a mirarmi, poi scoppiò in una gran risata:

— Ma che dici, Gengè? —

Si fracassò d’un tratto allo scoppio di quella risata il mio orrore, l’incubo di quelle necessità cieche in cui il mio spirito, nella profondità delle sue indagini, s’era urtato poc’anzi, rabbrividendo.

Ah, ecco — un usurajo, per gli altri; uno stupido qua, per Dida mia moglie. Gengè io ero; uno qua, nell’animo e davanti agli occhi di mia moglie; e chi sa quant’altri Gengè, fuori, nell’animo o solamente negli occhi della gente di Richieri. Non si trattava del mio spirito, che si sentiva dentro di me libero e immune, nella sua intimità originaria, di tutte quelle considerazioni delle cose che m’erano venute, che mi erano state fatte e date dagli altri, e principalmente di questa del danaro e della professione di mio padre.

No? E di chi si trattava dunque? Se potevo non riconoscer mia questa realtà spregevole che mi davano gli altri, ahimè dovevo pur riconoscere che se anche me ne fossi data una, io, per me, questa non sarebbe stata più vera, come realtà, di quella che mi davano gli altri, di quella in cui gli altri mi facevano consistere con quel corpo che ora, davanti a mia moglie, non poteva neanch’esso parermi mio, giacchè se l’era appropriato quel Gengè suo, che or ora aveva detto una nuova sciocchezza per cui tanto ella aveva riso. Voler sapere la sua professione. E che non si sapeva?

— Lusso di bontà... — feci, quasi tra me, stac-