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De l’arti belle, e il più bel fior ne colgo.
Ne le Molucche ho il mio giardino eletto,
L’orto al Borneo, la vigna dolce al Capo.
Per me fa drappi il tessitor Persiano,
Il Cinese vasaio urne e pagode,
Nè raro viene a la mia mensa un frutto
Sotto i tropici nato, e senza fasto
D’indico padiglion copro i miei sonni.
Non felice è colui, che in ferrate arche
L’oro nasconde, o quel che l’uom mendico,
Eppur eguale a lui, preme ed isfulta.
Felice è quei, che del suo ricco censo
Al comodo provvede, e fa con seco
Di sua felicità gli altri felici.
Ma tenerti più a lungo omai mi grava,
E del meglio privarti, onde s’adorna
Quest’alma fede; a Silvio vanne, e quando
Udrai suoi detti, e suoi modi vedrai,
Fia che d’ogni altra cosa obblio ti prenda.
Così dicendo a me si tolse. Io vidi
Il gran Silvio e l’udii; pieno di lui
L’anima, e i sensi, e la memoria piena
Ancor ne porto; ma chi stile e voce,
Chi color mi darà, chi tocco ardito,
Che il disceso dal ciel spirto dipinga?
Io te chiamo, Pagnin, tu che sì presso
La grand’alma conosci, e che sovente