Pagina:Poemi (Esiodo).djvu/61

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PREFAZIONE lvii

la ragione che non basta ad illuminare il sentiero, e che movendoci corriamo rischio di cadere, chi sa mai, magari in un baratro, ci condanniamo alla perpetua immobilità. L’essenziale sarà di procedere con la massima cautela.

Vediamo, dunque. Giove, ogni volta che debella i suoi nemici, li scaraventa sotto la terra, o, meglio, in un baratro sotterraneo, che è chiamato ora Tartaro, ora Erebo. Qui scaglia Crono (851), qui Briareo Cotto e Gia, qui Atlante (517, cfr. 746), qui Menezio (515), qui, tutti in blocco, i Titànidi. Qui anche, con palese contraddizione, Stige ed Ecate, dilettissime al suo cuore.

Questa contrada remota e misteriosa è descritta coi colori che tutte le mitologie sfoggiano pei loro inferni. Se non che, fra i tanti particolari terrifici e generici che servono a descriverla, ce ne sono un paio che implicano una ubicazione precisa. Ripetute volte, e con espressione che certo era canonica, e serviva appunto per designare sempre questo luogo, si dice che esso è «ai confini della terra» (ἐν πείρασι γαίης 517, 621, etc.). E siccome poi l’Atlante, che sta anch’esso «ai confini della terra» è precisato che sta dinanzi alle Esperidi (le Dee del tramonto), si tratterà dei confini occidentali.

Dunque, un paese dell’estremo Occidente. E non già, come verrebbe fatto di immaginare alla prima, un paese interamente chimerico, una fantastica trasformazione della notte eterna che si suppone esista là dove il sole si immerge. Bensí un paese reale, il cui abbozzo era dato dai racconti dei viaggiatori. Un paese del Nord, del quale si sapeva, per relazioni sia pure confusissime, che il sole, vi rimaneva nascosto per lunghissimo spazio di tempo1.

  1. Queste sono verità oramai accettate da ogni persona di buon senso. Rimando ad ogni modo al noto lavoro del Berard: Les Phéniciens et l’Odyssée.