Pagina:Poemi conviviali (1905).djvu/123

Da Wikisource.

la notte 103

     Ma allo schiavo il pio cantor rispose:
«Ospite caro, basta ch’io ricordi.
Ero fanciullo ed imparai le notti
gelide e il sonno sotto la rugiada.
Ché da fanciullo pascolai la greggia,
reggendo in mano la ricurva verga
del pecoraio, non lo scettro, ramo
di sacro alloro che, senz’altro squillo
d’arguta cetra, colma a me di canto,
come alle genti di silenzio, il cuore.
Mio padre ad Ascra dall’eolia Cyme
venne, fuggendo, non la copia e gli agi,
sì la cattiva povertà; che venne,
tanto l’amava, su la nave anch’ella,
né più si stolse e poi restò col figlio.
E io badai le pecore sui greppi
dell’Elicone, il grande monte e bello,
e le notti passai su la montagna.

     E in una notte come questa... il sonno
non mi voleva. Ché splendean le stelle
tutte nel cielo, e fresche del lavacro
veniano su le Pleiadi che al campo
lascian l’aratro e trovano la falce.
E insonne udivo uno stormir di selve,
un correr d’acque, un mormorio di fonti.
E s’esalava un infinito odore
dai molli prati, e tutto era silenzio,
e tutto voce; ed era tutto un canto.
Ed ecco tutto io mi sentii dischiuso
all’universo, che d’un tratto invase
l’essere mio; né così lieve un sogno
entra nell’occhio nostro benché chiuso.
E tutto allora in me trovai, che prima