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canto ventesimo. 93

52 E così morto è il possente gigante,
     E tanto al conte Orlando n’è incresciuto,
     Che non facea se non pianger Morgante,
     E dice con Rinaldo: Hai tu veduto
     Costui, c’ha fatto tremar già Levante;
     Aresti tu però giammai creduto
     Che così strano il fin fussi e sì subito?
     Dicea Rinaldo: Io stesso ancor ne dubito.

53 E’ mi ricorda, sendo a Montalbano,
     Quel dì che noi vincemo Erminione,
     Che fece cose col battaglio in mano,
     Ch’erono al tutto fuor d’ogni ragione:
     Di Manfredonio sai ch’ancor ridiano,
     Quando e’ v’andò per riaver Dodone,
     E che ravvolse Manfredonio e quello
     Nel padiglion, che parve un fegatello.

54 Il dì che difendea Meridiana,
     Gli vidi tanta gente intorno morta,
     Che non fu cosa, al mio parere, umana.
     Ma dimmi, a Babillona a quella porta
     Vedestu mai però cosa sì strana?
     Pensavi tu sua vita così corta?
     E’ mi fe’ ricordar12 quel dì di Giove,
     Quando i giganti fêr l’antiche pruove.

55 E dissi: Certo, se Morgante v’era,
     Tu ti staresti ancor13, Giove, in Egitto
     Con Bacco trasformato in qualche fera,
     Chè costui certo t’arebbe sconfitto:
     Ma non sarà tenuta cosa vera,
     Da chi lo troverrà in futuro scritto;
     Chè io che ’l vidi, non lo credo appena
     Di questo, nè d’uccider la balena.

56 Che maladetto sia tanta sciagura:
     O vita nostra debole e fallace!
     Così piangean la sua disavventura.
     Ma sopra tutto ad Orlando dispiace;
     Ed ordinò di dargli sepoltura,
     Chè spera che nel Ciel l’alma abbi pace:
     E terminò mandarlo a Babillona,
     Ma prima imbalsimar la sua persona.