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XLIII.

SUL CAMPIDOGLIO LIBERATO.


Non appena sul terrapieno, dentro la seconda porta, feci due prigionieri e li disarmai. In breve fummo del tutto padroni della barricata; e detti mano, con i soldati, a disfarla.

Dopo, poco a poco, mi raggiunsero i miei compagni. Assieme corremmo dentro la città verso l’Ambasciata di Francia, che era difesa da due compagnie le quali già aveano imbracciato il fucile in attesa dell’ordine di far fuoco. Ad un tratto, però, ebbero ordine di ritirarsi.

Avanzammo ancora e giungemmo fino a Piazza Montecavallo, dinanzi al Quirinale, quando ancora non vi era giunto alcuno dei nostri soldati. Non avremmo, però, potuto certamente penetrare da soli così addentro la città, se una circostanza non ci avesse favorito. E fu, questa, il passaggio del lungo corteo delle carrozze degli Ambasciatori, i quali si recavano al Quartier Generale di Cadorna sperando, forse, di potersi intrufolare nei patti della resa. Nel trambusto del passaggio dei numerosi equipaggi del Corpo Diplomatico e della numerosa scorta dei Dragoni, che li precedevano, attorniavano e seguivano, potemmo avanzare. Soltanto a me toccò un piccolo incidente. Portando io al braccio i due fucili dei prigionieri che avevo fatti, un dragone della scorta, vedutili, mi venne addosso, forse per disarmarmi. Io gli puntai subito la mia pistola contro. Fu un attimo. Io ero proprio sul punto di sbarazzarmi del dragone, che avea alzata su di me la sciabola nuda, quando egli voltò il cavallo ed, allungando il galoppo, raggiunse il corteo da cui si era staccato.