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118 giulio cesare

conquiste per temere di dire il vero a’ vecchi canuti? Va, Decio, e di’ solo che Cesare non vuole uscire.

Dec. Onnipossente Cesare, nè vorrai dirmi qual cosa a ciò ti muova, onde il tuo messaggio non sia mal accolto?

Ces. Mi muove il voler mio; null’altro; e non andrò. Per appagare il Senato basterà questa parola; e ad appagar te, ch’io amo, terrò più lungo discorso. La è Calfurnia, la donna mia, che qui mi rattiene. Durante la scorsa notte ella ebbe un sogno, in cui le parve che la mia statua versasse sangue, come fontana forata in cento parti; molti Romani, ridenti in viso, attignevano di quel sangue, e fino ai cubiti vi tuffavano le nerborute braccia. Cotai visioni le appaiono come presagi d’imminenti mali; e genuflessa scongiuravami dianzi di non volerla per oggi abbandonare.

Dec. Il sogno fu male interpretato, e aver doveasi in conto di felice augurio. La tua statua da cui zampilla il sangue in tanti getti, e i Romani che sorridendo vi si bagnano, altro non dicono, se non che da te l’illustre Roma trarrà un puro sangue che varrà a ringiovanirla, mentre i grandi dello Stato s’accalcheranno a te intorno per avere un tuo ricordo. Ecco a che risponde il sogno di Calfurnia.

Ces. Così ben parmi meglio esplicato.

Dec. E viemmeglio il crederai, udito che m’abbi. Ti sia noto dunque che il Senato risolvè accordar oggi una corona a Cesare; e come potesse mutar sentenza, ove ti rifiuti all’andare, ben di per te il vedrai. S’arroga a ciò che in ischerno taluno direbbe: Sciogliete il Senato fino ad altro giorno, in cui di più lieti sogni vada rallegrata la femmina di Cesare. E sapendosi Cesare ritroso all’uscire, mormorerebbesi ancora: Cesare ha timore! Perdonami, Cesare, se così libero parlo, e ne accagiona soltanto quello zelo che io sento per te.

Ces. Come imbelli ora mi sembrano i tuoi terrori, Calfurnia! Quasi arrossisco d’esserne stato vinto. Il mio pallio, olà! Cesare corre al Senato (entrano Publio, Bruto, Lioario, Metello, Casca, Trebonio e Cinna). Ma ecco Publio.

Pub. Salute a Cesare!

Ces. Sii il benvenuto, Publio. — Bruto tu pure. Valete, Ligario, Casca; valete tutti, nobili amici. Qual’ora recate?

Br. Le otto suonarono.

Ces. Vi siano rese grazie per tutte le cure che mi prodigate (entra Antonio). Nobile Marco, sebbene tu consumi in gozzoviglie le notti, non sei meno sollecito il mattino. Buon dì, nobile Marco.

Ant. M’inchino a Cesare.