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346 antonio e cleopatra


Mar. Morta.

Ant. Ero, toglimi la corazza: la fatica di questo lungo dì è terminata, ed è tempo di riposo. — Tu (a Mar.), pel tuo messaggio, stimati felice uscendo vivo da questi luoghi. Vattene. (Mar. esce) Spogliami (a Ero), rompi questi nodi. — Il settemplice scudo di Aiace non potrebbe comprimere i palpiti del mio cuore. Oh cuor mio, frangiti, e squarcia il fragile inviluppo di carne che ti circonda, squarcialo con un palpito generoso! — Affrettati, Ero, affrettati; nulla ho più di guerriero. — Inutili avanzi della mia armatura, ite lungi da me; voi foste almeno portati con onore. — Allontanati, lasciami solo un istante. — (Ero esce) Oh Cleopatra, ti raggiungerò, e in pianto a’ tuoi ginocchi implorerò il mio perdono. Su, convien finirla, ogni indugio è un nuovo supplizio. Poichè la torcia langue è tempo di spegnerla. Non differiamo più oltre. Ora ogni resistenza sarebbe inutile e nuocerebbe anzichè giovare. La forza soccomberebbe vittima de’ suoi conati: chiudiam gli occhi, e tutto scompaia. — Ero!... vengo a te, mia regina... Ero!... aspettami in quei luoghi fortunati, dove le ombre riposano sopra strati di fiori. Là insieme impalmati attireremo su di noi gli sguardi dell’Eliso, commosso dall’eroica maestà dei nostri mani. Dido e il suo Enea vedran la loro corte deserta, e tutti gli abitanti di quelle felici regioni accorreranno in folla sulle orme nostre. — Vieni, Eroi Ero!     (rientra Ero)

Ero. Che vuole il mio signore?

Ant. Da che Cleopatra non è più, ho condotto una vita sì disonorata, che gli Dei hanno orrore della mia viltà. Io, che colla mia spada dividevo l’eredità del mondo e che facevo scender sul ceruleo dorso di Nettuno città ondeggianti; io qui riconosco che manco del coraggio di una donna, ed ho ben meno virtù di lei che, dandosi morte, insegnò a Cesare, come da sè sola poteva vincersi. — Ero, tu giurasti, che se mai le circostanze lo esigessero, allorchè vedessi una catena d’insopportabili sventure allacciarmi, e non offrirmi più che dolori nella vita, allora al mio primo comando m’avresti dato la morte. Compi la tua promessa; poichè quel tempo è venuto, nè sarò io che ferirai, ma Cesare a cui rapisci il frutto della sua vittoria. Su, dissipa il pallore delle tue guancie.

Ero. Gli Dei nol vogliano! Io, io eseguirei ciò che non han potuto fare tutti i dardi dei Parti nemici, scagliati invano contro di voi?

Ant. Amato Ero, vorresti tu dunque dai veroni della gran Roma mirare il tuo signore colle braccia incatenate, in umile positura,