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48 capitolo sesto


— Vi ho domandato dove ci volete condurre, — replicò Fedoro. — Ci era stata promessa la libertà per stamane.

— Ah! — fece l’ufficiale.

Poi, voltandogli bruscamente le spalle, disse:

— Orsù, sbrigatevi. —

Quattro facchini si posero le aste sulle spalle e portarono fuori la gabbia, seguiti dagli altri quattro che dovevano surrogarli più tardi e dal drappello dei soldati.

L’ufficiale marciava innanzi a tutti, colla scimitarra sfoderata.

— Comprendi nulla tu? — chiese Rokoff al negoziante di the.

— Non so spiegarmi il motivo per cui hanno preso tante precauzioni verso due uomini che devono mettersi in libertà, — rispose il russo, le cui inquietudini aumentavano. — Vedremo come finirà questa avventura. —

Un carro massiccio, tirato da due cavalli e scortato da dodici cavalieri manciù, li attendeva fuori della prigione.

La gabbia fu caricata, solidamente assicurata, poi i cavalli partirono al galoppo, fiancheggiati dai manciù.

— Questi cinesi vogliono rovinarci, — disse Rokoff, che si aggrappava fortemente alle canne per resistere agli urti ed ai soprassalti che subiva il ruotabile. — Ehi, cocchiere del malanno! Rallenta un po’ la corsa! Non siamo già di caucciù noi! Basta, ti dico, buffone! —

Erano parole sprecate. I cavalli, piccoli, vivaci, eppur vigorosi, come sono tutti quelli dell’impero, galoppavano sfrenatamente, imprimendo al carro delle scosse disordinate in causa del pessimo stato delle vie, quasi tutte sfondate e rigate da solchi profondissimi.

Sempre scortati da manciù, i prigionieri attraversarono i quartieri meno popolati della capitale e che stante l’ora mattutina erano ancora quasi deserti e uscirono dalla porta di Shahuomen, passando sotto una massiccia torre quadrata.

— Dove ci conducono, Fedoro? — chiese Rokoff, vedendo il carro seguire i bastioni esterni.

— Vorrei saperlo anch’io.

— All’Ambasciata no di certo.

— Siamo usciti dalla città.

— E ci dirigiamo?

— Verso il Pei-Ho, se non m’inganno. Ah! Mi viene un sospetto.

— E quale Fedoro?