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28 Capitolo III.


— Eh, chi lo sa! — disse il comandante.

— Mi credereste capace di scherzare?

— Io non lo so, però io dubito un po’ di dover fra poco comparire dinanzi a Dio.

— Ve ne persuaderete fra venti minuti. La fossa è già stata scavata nel cortile.

Olao!... —

Un cosacco, l’ordinanza del capitano che vegliava al di fuori, udendo quella chiamata, entrò tenendo in mano un fucile colla baionetta inastata.

— Veglia sul prigioniero, — gli disse il capitano. — Il primo che entra qui, uccidilo come un cane.

Mi hai capito?

— Sì, capitano, — rispose il soldato.

— M’incarico io di svegliare i cosacchi. Il tuo compagno ha preparato il tamburo?

— Sì, padrone. —

Il capitano uscì, senza nemmeno volgere uno sguardo verso il comandante, chiudendo la porta con fracasso.

Nell’attiguo corridoio vi era un secondo cosacco, seduto su una rozza panca, con un tamburo accanto ed un fucile fra le gambe.

— Suona la sveglia, — gli disse il capitano. — L’ora dell’esecuzione è vicina. È stata scavata la fossa?

— Sì, padrone.

— Il maresciallo d’alloggio ha scelto il drappello?

— Certo.

— Va bene: suona forte. I forzati assisteranno alla fucilazione del comandante.

Ah! Egli crede che io scherzi! Comando io qui ed un numero più o un numero meno, non conterà. Ricorra, quando sarà morto, alla grazia suprema.

Gli affari sono affari, dicono i nostri vicini del di là dello stretto di Behering, ed io cerco di fare i miei il meglio che mi è possibile.

Il barone pagherà questa morte profumatamente. —

Il cosacco si appese il tamburo alla cintola e cominciò a battere furiosamente la sveglia, avanzandosi verso lo stanzone che serviva di dormitorio ai suoi camerati, facendo rimbombare le volte del penitenziario.