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116 emilio salgari

Dopo d’aver attraversato parecchie vallette e pianure incolte, malsane, quasi prive di vegetazione, i cavalieri salivano di galoppo la prima catena di alture, sulle cui cime sorge il villaggio di Demavend.

Giunti sulle colline, s’arrestarono per dare un po’ di riposo ai cavalli, che trottavano da tre ore senza un istante di tregua, e per vedere se erano inseguiti.

La vasta pianura si estendeva dinanzi ai loro occhi fino alla capitale, che ormai era appena visibile, essendo lontana oltre trentacinque miglia.

Lo sguardo acuto di Nadir distinse subito un drappello di venti o trenta cavalieri che galoppava verso il villaggio di Demavend, mentre altri, ma assai più lontani, percorrevano la pianura in varie direzioni.

— Ci inseguono, Harum — disse.

— Lo vedo, — rispose il montanaro, — e sono contento di aver evitato il villaggio. Saremmo stati segnalati e più tardi inseguiti.

— Che ci abbiano scorti?

— No, poichè vedo che non si dirigono verso di noi.

— Dov’è Ask?

— Laggiù — rispose il montanaro, indicando un gruppetto di casucce annidate in fondo ad una valle.

— Bisogna evitarlo.

— Passeremo lontani, Nadir.

— Che le guardie si siano accorte, quando uscivamo dalla città, che Fathima era con noi?

— Non lo credo.

— Ma perchè c’inseguono adunque?

— Per sapere chi siamo.

— Inseguiranno adunque tutte le persone uscite da Teheran?

— È cosa certa, Nadir.

— Quale vantaggio abbiamo su quei cavalieri?

— Almeno dodici miglia.

— Non ci raggiungeranno più.

— Lo spero.

— Hai paura, Fathima?

— Presso di te non temo nessuno, Nadir — rispose la giovanetta.