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freddo sudore, furono curvati sulla roccia in maniera che potessero vedere ciò che avveniva nel fiume, prima che venissero divorati dai loro terribili carnefici.

Proprio sotto la rupe si erano radunati a migliaia i feroci pesci. Quei mondongueros, chiamati anche caraibi, messi in appetito dai pezzi di carne dapprima gettati dai Patagoni, parevano in preda a un tremendo furore, ad una fame diabolica. S’inseguivano in tutti i versi, mostrando le loro piccole bocche armate dei potenti denti triangolari, azzannandosi l’un l’altro, combattendosi con un accanimento senza pari, lacerandosi, mangiandosi a vicenda. Interi battaglioni scomparivano in pochi istanti, divorati dalle potenti mascelle dei più forti e dei più svelti.

Cardozo e il mastro chiusero gli occhi per non vedere. Un istante dopo si udì il capo dare il comando di calarli nel fiume.

— Cardozo! — gridò il mastro con accento disperato.

— Marinaio, — rispose il ragazzo con suprema energia. — Non ho paura!

La corda scorreva nelle mani dei Patagoni, ma lentamente. Pareva che quelle esecrabili creature provassero un gusto diabolico nel prolungare l’agonia degli sventurati superstiti del valoroso Pilcomayo.

Ad un tratto i due prigionieri toccarono l’acqua e si immersero lentamente. Cardozo mandò subito un grido orribile. Una torma di caraibi si era slanciata sopra di lui, stracciandogli con furore le vesti e intaccandogli ferocemente le carni.

— Diego! — urlò l’infelice, facendo sforzi disperati per sbarazzarsi dei legami.

Il mastro rispose con un vero ruggito, con un ruggito di dolore. Anche lui era stato assalito e anche per lui cominciava l’orribile supplizio di sentirsi mangiare vivo, pezzetto per pezzetto.

D’improvviso si udì una voce a tuonare: — Fermate! Sono i figli della luna! Sia maledetto chi li tocca!

Un istante dopo i due prigionieri, imbrattati di sangue, colle vesti in più parti bucate, venivano lestamente issati e sdrajati sulla rupe.