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staldo invece giura pel Genio del suo padrone, che in niuna cosa cessò mai la sua premura, e che que’ platani erano alquanto vecchi: jurat per Genium meum se omnia facere, in nulla re cessare curam suam, sed illas (platanos) vetulas esse. Così scrive Seneca medesimo nella sua dodicesima Lettera. Quanto poi fosse saldo il giuramento latto pel Genio massimamente dell’Imperatore, ben lo dimostra Tertulliano, che nel Cap. 28 dell’Apologia così ne rimbrotta i Gentili: Citius denique apud vos per omnes Deos, quam per unicum Genium Caesaris pejeratur. Si chiamavano Genii semplicemente quelli che a ciascun luogo presiedevano, e qualche volta Genii Magni quelli che aveano come in cura le città, e le nazioni. Quindi nelle lapidi sovente si vede indicato Genius Centuriae, Genius Coloniae, Genius Conventus, Genius boatis, Genius Horreorum, Genius Lavacrorum, Genius Municipii, Genius Patriae, Genius Theatri, Genius Venalitionum. Per lo che Prudenzio così si scaglia contro Simmaco:


Quanquam cur Genium Romae mihi fingitis unum?
Cum portis, domibus, thermis, stabulis solealis
Adsignare suos Genius
etc.


Dal Genio poi prese il nome di banchetto geniale, quello, che nel giorno delle nozze dallo Sposo s’imbandiva alla Sposa, ed alla festosa brigata, e parimenti dal Genio si nomò Ietto geniale il letto nuziale, che pomposamente si ornava o nel dì delle nozze, o quando vi giaceva la puerpera. I filosofi, come Platone appresso i Greci, Cicerone appresso i Latini, concederono bensì, che al Genio si prestasse un culto, ma pretesero che per altro non si ritenesse che per l’anima di ciascuno, la quale essendo creata da Dio venisse anch’essa qual Dio onorata. Dal che derivarono forse le dizioni latine indulgere genio, o defraudare genium per esprimere l’azione di soddisfare, o di contrastare agli appetiti dell’animo. Fu in seguito imaginato, che a ciascun uomo due Genii fossero dati, uno cattivo, e l’altro buono; ma però quasi sempre appo i giudiziosi filosofi, e poeti di un solo si fa menzione; e questi è amabile e piacevole, onde non è raro il trovare la voce genium usata per dire la grazia, e la leggiadria di alcuna persona o cosa. Marziale di fatto volendo dire, che il poeta che vuol essere immortale, debbe avere grazia e venustà ne’ suoi versi, termina l’Epigr. 60 del Lib. vi., così dicendo:


Victurus genium debet habere liber.


Vedi il Monton di Friso. Friso fu figliuolo d’Atamante, e di Nefele; il quale non potendo sopportare la mala vita da-