Pagina:Satire (Persio).djvu/116

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condizione del misero, che la fortuna ha condannato a servire, e lo vendica degli oltraggi che fa l’orgoglio ricco e potente alla virtù bisognosa.

festuca. v. 175. — Vedi prima la nota al v. 88. Dopo che lo schiavo aveva ricevuta dal pretore la libertà col tocco della bacchetta, il littore anch’esso percotevalo sulla testa con una festuca, o fuscello di legno, o altro che fosse, e così finiva la manomissione. Di tutte tali cerimonie Persio ricorda la più ridicola, onde più giustamente beffarsi d’una libertà cosiffatta. Forse, e senza forse, questo frizzo gli è stato suggerito da Plauto. Quid ea? ingenua, an festuca facta? serva, an libera?

vigila. v. 177. — È l’ambizione che parla al suo candidato, esortandolo ad accattarsi con abbondante largizione di legumi al popolo una magistratura, e ciò nelle feste di Flora, feste carissime alla canaglia, perchè liberissime e indecentissime.

herodis. v. 180. — Derisa la libertà degli stolti, degli avari, dei dissoluti, degli ambiziosi, Persio attacca per ultimo i superstiziosi. E quantunque Roma si fosse ben ricca di superstizioni sue proprie, nondimeno il poeta a fine di sollazzarsi colle più insensate e ridicole, si ferma su le giudaiche ed egiziane, ereditate poscia dalle varie sette de’ cristiani, secondo il lamento de’ S. Padri.

grandes galli. v. 186. — Sacerdoti di Cibele, così chiamati dal fiume Gallo nella Frigia, le cui acque inducevano, dicesi, la pazzìa: di che fa prova la castratura, a cui si assoggettavano per degnamente servire quella vecchia divinità.

cum sistro lusca sacerdos. ibid. — Cioè, la losca sacerdotessa d’Iside. Ma perchè losca? Fra le varie opinioni mi soddisfa quella dello Scoliaste: lusca autem ideo quod nubiles deformes, cum maritos non inveniant, ad ministeria deorum se conferant.