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considerazioni 199

nori di quelli attribuiti al Cane. Già i passi addotti qui sopra ne porgono un saggio: altri diversi se ne potrebbero recar in proposito, fra i quali scelgo uno solo (lib. II, c. 40): Caniculae exortu accendi Solis vapores quis ignorat, cuius sideris effectus amplissimi in terra sentiuntur? fervent maria exoriente eo, fluctuant in cellis vina, moventur stagna etc.

Quantunque in molti luoghi della sua grand’opera Plinio si mostri bene informato degli effetti analoghi del Cane o di Sirio sopra i più disparati fenomeni della natura, egli non sembra aver il più leggero sospetto che l’uno o l’altro potesse da altri al suo tempo esser considerato come l’equivalente della Canicula. Il Cane maggiore ed il minore, Sirio e la Canicula sono per lui ambedue apportatori di grande calore, di siccità, e sopratutto di calamità diverse.

3. Di questo medesimo parere sembra sia stato anche Cicerone, il quale di Procione dice nella sua versione di Arato1:

....Procyon qui se se fervidus infert
Ante Canem....

applicando così a Procione la medesima denominazione di fervidus, data poco più sotto al Cane2:

Fervidus ille Canis toto cum corpore cedit.

Il testo d’Arato nulla ha per Procione, che corrisponda a fervidus: perciò sembra plausibile credere, che per Cicerone l’uno e l’altro Cane avessero influenze di natura analoga sull’accrescimento dei calori estivi: essi apparivano infatti al mattino a pochi giorni d’intervallo. Ma quello che per Cicerone è solamente probabile, è certissimo per Orazio, il quale nell’ode 29a del libro III scrive sul ritornar della state:

.... Iam Procyon furit,
Et stella vesani Leonis,
Sole dies referente siccos.

    scritto la notizia da un autore latino uso a riguardare Sirio e Canicola come sinonimi (quale fu Columella per esempio), senza verificare il significato preciso attribuito da quello al vocabolo Canicula, che per lui, Plinio, senza dubbio anche questa volta significava Procione. Nè è questo l’unico abbaglio di tal natura in Plinio; e basti per ora avervi accennato.

  1. Buhle, Aratea, vol. II, p. 24.
  2. Ibidem, p. 27.