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Ma è curioso però di mostrare che, pur concedendo questo, che mi sembra un acquisto inoppugnabile della filosofia kantiana, si giunga a confutare l’affermazione di Kant che noi possiamo immaginare lo spazio vuoto, lo spazio assoluto, come un quid che deve esser già presente al nostro intelletto perchè le sensazioni possano essere attribuite a qualcosa d’esterno.1

La nozione d’esteriorità, derivante dalla percezione e dalla rappresentazione di ciò che è fuori di noi, è una nozione essenzialmente relativa.2 Una posizione nello spazio non ha alcuna qualità intrinseca, ma ne acquista soltanto rispetto a me.

Supporre ch’io possa imaginare qualcosa che spetti intrinsecamente allo spazio, qualcosa di assoluto, importa di conseguenza la supposizione che io mi accorgerei se quel qualcosa cambiasse, pur restando fissi i rapporti tra l’esterno e me. In altre parole io dovrei esser dentro all’ambiente che si modifica, per subirne io stesso i cambiamenti, affinchè quei rapporti restassero immutati; e nello stesso tempo dovrei esserne fuori per potermi accorgere di ciò che è accaduto. Insomma nello spazio relativo avrei un me umano, che si presta docilmente alla metamorfosi, e nello spazio assoluto un me sovrumano, integro ed immutabile come una deità posta lì a giudicare i travestimenti d’un mondo volubile!

Si può scendere dalle nuvole del trascendente e concretare con un’imagine di Delboeuf.

Una notte il mondo, stanco della immobilità che gli conferirono i filosofi dello spazio assoluto, da Leucippo e da Democrito in poi, s’ingrandisce ad un tratto, in tutte le direzioni, mille volte di più, così che ogni corpo rimane simile a sè stesso.

Se io dico che questo portentoso fenomeno è accaduto ieri notte, niuno potrà darmi ragione o contraddirmi; a meno che in qualcuno non fosse avvenuto quel certo sdoppiamento di personalità cui ho alluso or ora e che, certo per la pochezza del mio intelletto, io non so concepire neppure chiamando al soccorso i fenomeni spiritici, cui una volta ebbi la ventura d’assistere.

Così, per ragioni puramente intellettuali, che sono a priori rispetto all’esperienza, conviene ammettere la relatività dello spazio ed in particolare la relatività della posizione.

  1. Kant, Critique de la raison pure; F. Alcan, Paris, 1905; p. 66.
  2. Cfr. Russell, op. cit., p. 175.