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senso 255

solenne e semplice, senza guardare nessuno; e, mentre la padrona di casa mi veniva incontro e m’invitava a sederle accanto, agitavo il ventaglio innanzi alla mia faccia, come per nascondermi pudicamente agli occhi della gente stupita.

Ai freschi, alle serenate non mancavo mai. In piazza di San Marco al caffè Quadri avevo intorno un nuvolo di satelliti: ero il sole di un nuovo sistema planetario: ridevo, scherzavo, canzonavo chi voleva pigliarmi con i sospiri o con i versi, mi mostravo una fortezza inespugnata, ma non mi affaticavo poi troppo, per non iscoraggire nessuno, a sembrare proprio inespugnabile. La mia corte si componeva in massima parte di ufficialetti e d’impiegati tirolesi piuttosto scipiti e assai tronfii, tanto che i più dilettevoli erano i più scapati, quelli che avevano nella scostumatezza acquistato non foss’altro l’audacia petulante delle proprie sciocchezze. Tra questi ne conobbi uno, il quale usciva dal mazzo per due ragioni. Alla dissolutezza sbadata, univa, per quanto i suoi stessi amici affermavano, una così cinica immoralità di principii, che niente gli pareva rispettabile in questo mondo, salvo il codice penale e il regolamento militare. Oltre a ciò era veramente bellissimo e straordinariamente vigoroso: un misto di Adone e di Alcide. Bianco e roseo, con i capelli biondi ricciuti, il mento privo di barba, le orecchie tanto minute che sembravano quelle di una