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bianche dei larghi ombrellini si avanzavano le signore, in abiti chiari, freschi, leggeri, in tutte le gradazioni del lusso. Venivano da Napoli, da Santamaria, da Capua, da Maddaloni, da tutte le città piccole, dai casali grandi dei dintorni, ridendo, cinguettando: quelle di Napoli, disinvolte, odorando i grossi mazzi di fiori, armeggiando col ventaglio: quelle della provincia un po’ meno chiassose, spiando le cittadine, cercando di imitarle. Batteva il sole di quella gaia giornata di settembre e le signore mettevano allegramente nella polvere le loro scarpette lucide, dalla fibbia gemmata. Il viale formicolava di gente.

Di fronte il palazzo, il sogno poetico di Vanvitelli che è diventato una realtà architettonica, serbava la sua grande aria maestosa, creatagli dalla purezza delle linee, dalla semplicità squisita degli ornamenti, dall’armonia severa, da quel colore di legno-pallido, non sbiadito, ma su cui il tempo è passato leggermente. Le finestre del primo piano erano tutte aperte: i tre enormi portoni, i cui androni traversano tutta la mole dell’edificio, e da cui si scorge la lontana cascata spumante di acque, erano spalancati, inghiottendo continuamente gente. Lungo la via sventolavano i pennoni della provincia, la Campania Felice, col corno dell’abbondanza, da cui si riversano tutte le ricchezze della terra: sventolavano le bandiere nazionali.

La gente andava, andava, come se il suo maggior pensiero fosse l’agricoltura. Ma, in verità, era una scampagnata di settembre quella inaugurazione, un pretesto per scappar via in vagone, in carrozza, in