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La Conquista di Roma 135

una fava secca, arso da un desiderio irrefrenato e consumato dalla inettezza di questo desiderio!»

Ora il cielo tutto bianco allo zenit si faceva di un bigio delicato sulla linea circolare dell’orizzonte: una dolcezza serale saliva dalla città nell’aria, come un velo finissimo. Francesco Sangiorgio provava un malessere strano: Tullio Giustini gli sembrava più terreo, più brutto che mai, in quel momento: ridendo, gli si scoprivano due fila di denti giallastri.

«Com’è quieta la città!» riprese Tullio Giustini; «pare che si goda, dormendo, la festa di Natale. Pare, pare, non è. Lassù, in quel verde del Pincio e di villa Medici che discende fino a Via Babuino, i pittori cantano, ridono, dicono delle eresie come teoriche d’arte, e producono dei quadri che sembrano follie grandi. Che gliene importa, a loro? Per consolarsi dell’insuccesso, hanno inventato la parola borghese, con cui disprezzano il pubblico. In tutto quel biancore, dall’ altra parte, sono i quartieri nuovi. C’è stato mai? Settantamila impiegati, famiglie, servi, cani e gattini: un attendamento di barbari disarmati e affamati, che se ne stanno accoccolati lassù, guardando Roma e odiandola, perchè non la pos-