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La Conquista di Roma 233


«I padrini sono Lapucci e Bomba,» disse Scalìa, versandosi del vino. «Abbiamo convegno alle nove e mezzo. Avete provveduto alle sciabole, Sangiorgio?»

«Sì.»

«Bene,» disse Castelforte. «Spero che le abbiate fatte arrotare: niente più odioso, in un duello, che le sciabole mal affilate. Il duello si prolunga, e le ferite sono sempre ridicole, larghe, una indecenza.»

«Le ho fatte arrotare dallo stesso Spadini.»

«Bravo,» fece Scalìa. «Un duello lungo ha tutti gli inconvenienti; si presta alla burletta. Una cosa sola vi raccomando, Sangiorgio; non pensate a nulla e di nulla vi preoccupate, ma al primo assalto, andate giù, non aspettate l’avversario, non calcolate nulla, buttatevi: quelli che cominciano, non possono riescire che così.»

«D’altra parte,» aggiunse Castelforte, «come ho potuto intendere dalle parole di Lapucci, le condizioni saranno piuttosto gravi. Ma voi non ci badate, Sangiorgio: è naturale che fra due persone serie, queste cose siano prese sul serio.»

«Io non ho intenzione di scherzare,» soggiunse Sangiorgio, prendendo dell’insalata.

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