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novella lxxviiii | 347 |
tendo Cazzutoro pensò trovare qualche modo a potere a lui andare. E subito tirato il naso al fanciullo, lo fe’ piangere. E non restando il piangere. Vespa dice: «Dalli la pupora». Dolciata dice: «E’ non vale niente, ma io le vo’ andare a cuocere uno vuovo e credo starà cheto». Vespa simplice: «Và, et intanto nannerò il bambolo». Messasi Dolciata <la camicia> e preso i’ lume, fuori della camera uscìo faccendo vista il fuoco accendere: et al suo montone acostò il fuoco di Cazzutoro intanto che ciascuno rimase colla lana bagnata.
E ritornando la donna senza lume innel letto e posto l’una delle gambe sopra il piomaccio non acorgendosene e l’altra più giù, stando ella colla limerà aperta, parte della umidità ricevuta di Cazzutoro e della sua in sul volto a Vespa colò. Vespa, che crede che sia il vuovo, succhiandolo dice: «Tieni ritto il vuovo che gocciola». Dolciata, che sa che vuovo è quello che ’l Vespa ha succhiato, fra sé ride fortemente dicendo: «Io ho dato il brodo al mio marito e per me ho presa la carne». E ritornata innel letto, colla puppa il fanciullo racchetato e Vespa non acorgendosene di niente, si dormìo.
E questa vita tenne quella buona paggese di Dolciata col vuovo di Cazzutoro, con quello si pascea.
Ex.º lxxviiii.