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176 scritti di renato serra

dentro, nel suo cuore. Severino non l’aveva, e si dovè fermare. Parve che si vuotasse a un tratto, non solo delle musiche pascoliane, ma di tutta la poesia.

In quegli ultimi sonetti della Spezia si sente il venir meno di lui, come se inciampi e cada.

Tace per lungo tempo, e quando riprende non par più quello. I sonetti ultimi fiorentini e bolognesi sono tutt’altra cosa; che anche quando è ben fatta, come una prosa studiata, non ci rende tuttavia il poeta giovine che abbiamo amato. Non mi curerò di sottolineare difetti, che sono evidenti, bontà particolari di elocuzione o nobiltà di intenzione: nomino, per un certo debito di gratitudine, il sonetto su Garibaldi, di cui alcuni versi mi sono rimasti nella mente, da molti anni; e uno è bello:

rosso, irto, con piglio di leone.

Ma ora, ripensando e guardando il tutto insieme, ognuno si accorge che il valore di quest’ultima parte dell’opera di Severino non è nei pregi, che pur si potrebbero illustrare con un poco di buona volontà: è in qualche cosa di più alto.

Si sente che gli ultimi sonetti, col desiderio che ci fanno rinascere dei versi primi, e il lungo silenzio e tutto questo quasi difetto e fallimento dell’antica promessa, riescono infine a rendere alla figura di lui il suo valore vero, quel significato e quella forma propria che le assicura una durata anche più lunga della nostra affezione.

Il valore di lui insomma non è solo nei versi e negli scritti; ma è in tutta insieme la sua religione dolce e santa di innamorato della poesia, e di fedele dell’uomo che a lui rappresentava la poe-