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È

XII

(I compagni di cella).

Santo Stefano, 9 marzo (1854).

In una cella di sedici palmi ogni lato, siamo otto prigionieri, tre politici, e cinque comuni. I tre politici siamo Silvio, io, e un povero giovane siciliano il quale combattendo in Calabria ebbe portato via da una palla un occhio, la parte superiore del naso, e piú che la metá del senno, di cui prima aveva anche poco. Dei comuni il primo (io li dipingo secondo i posti che hanno nella stanza) è un contadino abruzzese in un paesello del Chietino, un ometto grigio, con certi occhiuzzi neri, lucenti e maliziosi, con un naso come tromba pel quale è chiamato Nasone, con una voce stridula e fendente tartaglia strane parole del suo dialetto: avaro, sudicio, schifo oltre ogni dire, ha un letto che sarebbe onorato se fosse chiamato canile: presta danari ad usura, come i piú fanno, e ne raschia anche l’untume: serba il tabacco in una pina selvaggia scavata, e di tanto in tanto ne versa un tantino sul dorso della mano, vi pone su il trombone, e tira. È da venticinque anni nell’ergastolo per molti furti con ferite ed un omicidio, commessi con altri compagni, che sono anche qui ma in altre stanze. Avendo serbata buona condotta egli spera che compiuti trent’anni sará libero, come giá molti altri: e questo pensiero lo fa stare in una lieta stupiditá, e beffare gli altri ergastolani, i quali perché dannati a morte ed aggraziati non hanno questa speranza.

Il secondo è un altro contadino abruzzese del contado di Chieti, di sessantaquattro anni, secco asciutto, senza barba, con l’aria, il contegno, il sussiego, la cravatta, e le labbra strette del giudice criminale Scudieri suo parente, il quale, mettendo da banda i costumi, era un gran legista perché sapeva