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monte; e salire, bello della santa ira sua e della sua santa carità, a Dio, di spera in spera.

E quasi alla fine dell’altro viaggio, quando mancano appena i tre ultimi canti ineffabili dell’ineffabile Trinità, egli vede un seggio vuoto con su una corona. È il seggio destinato ad Enrico

                             ch’a drizzare Italia
               verrà in prima ch’ella sia disposta.

Quel seggio deve ricordare a lui la speranza venuta meno, del suo ritorno in patria; deve ricordare a lui il momento, in cui scrisse il primo canto della Comedia, quello che tutta la riassume. Oh! non fu il veltro, questi cui si aspetta il seggio vuoto! Oh! non fu rapido e forte, come doveva! Oh! l’esilio continuò più duro che mai! Pur quanta dolcezza nelle parole di Beatrice, che accennano al futuro ma riflettono il passato! Gl’Italiani che non hanno accolto il buono Enrico sono assomigliati al fantolino

            che muor di fame e caccia via la balia.

Dante, quando scriveva questo canto, sentiva già forse il freddo della morte. Pensate: in otto anni egli compì quel poema, cui pose mano cielo e terra! il cielo: la fede; la terra: il dolore. La vita di Dante, quando egli era a questo punto, dava forse gli ultimi guizzi: i tre altissimi guizzi di luce, che sono i canti della Trinità; poi si spense. Ebbene cantando il seggio vuoto dell’alto Enrico, egli ha una tristezza così dolce! così accorata! Esso non morrà in patria; non lo vedrà più il suo bel San Giovanni. E poco dopo Beatrice si allontana da lui e riprende il suo