Pagina:Specchio di vera penitenza.djvu/226

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198 trattato della superbia.

hai adoperate in noi, Signore Iddio. Chiunche crede o dice altro, fa ingiuria alla grazia di Dio, e villaneggia la sua misericordia; e fa Iddio iscarso venditore della grazia sua, quello che n’è larghissimo e liberalissimo donatore. La quale egli ci conceda e doni: qui est benedictus in secula seculorum, amen. La terza specie della superbia si è quando altri si vanta d’avere quello che non ha: e ciò puote intervenire in due modi. Il primo modo si è quando altri crede avere quello che non ha; il secondo modo si è quando altri sa bene che non ha quel cotale bene di che egli vanamente si loda e vanta. Il primo modo interviene1 da grande cechità; il secondo da grande vanità. Grande cechità, per certo, è che paia all’uomo avere quelle vertude e quelle bontade le quali in veruna maniera non ha. E non è da maravigliarsi, se noi consideriamo quello che dice san Gregorio, el quale dice che la superbia della mente accieca altrui, e non lascia conoscere la verità. E interviene questo vizio per lo disordinato amore propio di sé medesimo, il quale accieca l’uomo, e non gli lascia conoscere la sua cechitade. Onde dice santo Ambruogio: L’amor tuo inganna il giudicio tuo di te medesimo. E però è il proverbio comune che dice. E’ te ne inganna amore. Nasce ancora questa cechitade dalla negligenzia di non pensare lo stato suo e’ propi difetti; i quali se bene e spesso si considerassono, terrebbono l’uomo in umiltà, e non lo lascerebbono levare in superbia. E a ciò vale molto specchiarsi ispesso, leggendo la santa Iscrittura, la quale per dottrina e per essemplo insegna conoscere sé medesimo, e aprire gli occhi a vedere la sua miseria e ’l propio difetto, e a correggerlo; secondo che dice san Gregorio. Ancora è cagione di tale cechitade dare volentieri gli orecchi alle lode2 de’ lusinghieri: de’ quali dice Seneca, che loro propietade è d’ingannare altrui, e di fare che l’uo-

  1. Così concordamente, le stampe; e il nostro Testo: si viene; proseguendo, non meglio: da vana ec.
  2. Nel Codice è l'arcaico-plebeismo: lable.