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quella bonaria alterezza che non trascendeva mai, neppure nelle correzioni, e non permetteva mai a lei di trascendere.

La popolana mordeva il freno, consumandosi nella bile. E la servitù che l’odiava, ne parlava davanti a me. Per questo era così magra! Per questo era così gialla! Per questo non aveva che occhi!

Ma io non capivo che a metà, capivo che si odiavano e le avvolgevo nella stessa corrente antipatica.

Il rosario veniva recitato nella camera della marchesa, ai piedi di una madonna che era a capo del letto. Noi ci s’inginocchiava intorno al letto enorme, dove la vecchia dormiva sola da tanti anni, cambiando posto ogni notte per mantenerlo uguale; ella stessa intonava il rosario, recitando i misteri dolorosi, o gaudiosi, o gloriosi, secondo il giorno della settimana; e tutti gli altri rispondevano. E io che divagavo sempre e mi davo all’osservazione per passare il tempo, sentivo lo sdegno contenuto, l’amara rassegnazione della marchesa nel suo modo di dire «Ave Maria, gratia plena»; e la petulanza della cameriera mi si rivelava tutta intera nella voce di falsetto con cui ripigliava: «Santa Maria», la prima di tutti.

Alcune volte questo duo strano era così aspro, le parole sante esprimevano tanto rancore, tanto dispetto, che io rimanevo col cuore sospeso, trattenendo il fiato, nell’attesa di uno scoppio.

Ma lo scoppio non avveniva mai; a poco a poco la voce di zia Teresa s’illanguidiva nella rassegnazione dolorosa, e la cameriera, seccata e stanca dell’inutilità dei suoi attacchi, brontolava le risposte a voce bassa smozzicando le parole. Allora dominava la voce di zia Elena, voce nasale e monotona per l’abuso del tabacco.