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perdonava di avere compromesso il patrimonio di casa Cravenna durante la vedovanza, mentr’egli era tenuto lontano a studiare. Vi erano, in certe casse, brani di costumi ricamati in oro; trine ingiallite; grandi fisciù di tulle alla Maria Antonietta; spadini ruggini e, sopratutto, libri condannati all’oblìo — forse alle fiamme — dallo spirito religioso di zia Teresa: libri d’ogni genere, ma per lo più romanzi, drammi, poemi, che destarono in me il primo amore della lettura: Siroe, Attilio Regolo, Ivanhoe, La Fattucchiera delle acque, La bella pellegrina, Ossian, Leopardi.... tutto alla rinfusa. Quante ore ho passate là, e come dolci!

In un angolo della soffitta era un cassone nero, assai grande, che mi respingeva.

M’inspirava un vago terrore. Ma a poco a poco, come accade tante volte nella vita, quel terrore, quella ripugnanza, fermarono il mio pensiero e divennero un incentivo di curiosità. Infine un giorno mi sentii attirata verso quell’angolo misterioso da tutta la forza del mio terrore e della mia repugnanza.

Esaminando da vicino il cassone nero, m’accorsi che non era tarlato e in disordine come gli altri. Non aveva serratura. M’accinsi ad alzare il coperchio che mi parve pesantissimo. Finalmente riescii, e mentre lo tenevo sospeso con le mie braccette sottili, ficcai dentro la testa.

Uno strano odore mi salì al cervello. Odore di chiesa vuota, quando gli scaccini spengono le candele dopo una grande funzione. Rimasi sbalordita e chiusi gli occhi.

Quando li riaprii vidi, traverso a un velo nero che avvolgeva tutto, una corona di rose bianche con largo nastro di raso bianco ingiallito.