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statistica dell’industria carrarese 387

cinque libbre a due lire, intascandone dieci; l’ultimo avrà venduto cento libbre a cinquanta centesimi, e si troverà in tasca cinquanta lire, con pari gioja di chi intasca e di chi sborsa».

«Accadrebbe lo stesso anche sul mercato dei marmi», domandò Battista, «quando i Carraresi riuscissero a produrne di più e a venderli a prezzo minore!».

«Manco dubbio. Pesche o marmi che siano, la massima e l’esperienza valgono lo stesso. Mi ricordo, quand’ero ancor giovinetto, che i vetturali di Monza, proverbiali per la loro lentezza, come per l’indeclinabile va e vieni da Monza a Milano e da Milano a Monza, facevano un subisso di piagnistei e d’imprecazioni contro quel povero troncherello di ferrovia (il primo, se non m’inganno, costrutto in Italia), destinato a congiungere quel quasi sobborgo alla capitale lombarda. Pensate se avessero ragione, voi che, venuti più tardi al mondo, avete il vantaggio di vedere più presto su tutta la penisola distesa una rete di ferrovie, e il conseguente visibilio di viaggiatori, di diligenze, di vetture, di omnibus, di brummi, che percorrono in tutte le direzioni tanto le vie della città, quanto le strade delle province. Ma non vo’ farvi un trattato d’economia politica, e torno per la più breve alle cave di Carrara.

6. » Continuando a rimontare il Canal Grande, nuovo spettacolo mi offrivano i cumuli enormi dei rifiuti delle cave. Partendo dalla bocca d’ogni singola cava, ch’essi d’ordinario nascondono allo sguardo, discendono sino al fondo della valle, allargandosi in forma di mezzi coni addossati alla montagna; e’ somigliano ai cosiddetti coni di dejezione, che sono quei mucchi di ciottoli, di ghiaje, di sabbie, che i torrenti vengono accumulando colle successive piene dove sboccano d’un tratto dal monte al piano. Vi assicuro che quei cumuli di rifiuti bisogna vederli per averne un’idea, e per formarsi un concetto di ciò che può l’uomo col tempo. Ovunque v’inoltriate verso le cave, la strada vi appare tutta fiancheggiata di quegli sterminati ammassi di scheggiame di marmo, che la fatica di tante generazioni ha cumulati, e sembrano monti sfasciati, appoggiati a monti che si vanno sfasciando. Quando poi si pensa che quei cumuli enormi non sono composti che degli avanzi di marmi lavorati e trasportati via di lì in tutte le parti del mondo; che quegli ammassi rappresentano il lavoro dell’uomo nella misura che le briciole intorno alla mensa rappresentano le imbandigioni di un lauto banchetto; il dirli montagne sfasciate non è nemmeno un’iperbole. Quei cumuli ingenti