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delle Alpi. Ma sopra questa base verdeggiante e fiorita sorge un colosso ignudo, nero come un gran mucchio di carbone, aspro e duro, come una montagna di bronzo. È quello propriamente il Vesuvio, che si slancia tutto d’un pezzo da quel cinto fiorito, isolandosi in mezzo allo spazio, non avendo altro sfondo che il cielo, entro il cui seno azzurro disegna il suo conico profilo d’una regolarità perfetta. Al suo fianco verso nord-ovest si svolge a semicerchio la cresta dentata del monte Somma, che accenna ad abbracciare da lontano quel Vesuvio, che nacque un giorno dalle sue viscere.

3. » Giunti là dove la coltura comincia a diradarsi, la via riesce sulla sinistra di una corrente di lava irrigidita. Essa è quella del 1858. Bisogna essere stupidi per non arrestarsi in faccia a quella gigantesca corrente, tutta nuda ancora, che basta da sola a imprimerci indelebilmente nell’animo il sentimento della potenza di uno di questi terribili ministri della natura, che noi chiamiamo vulcani, e della grandiosità di una eruzione. Imaginatevi un gran fiume di nera pece, densa e vischiosa, che si rovesci dal fianco irto e scaglionato di una montagna. Quell’immane viscidume fluisce giù giù a onde, a fiotti pari af più grandi marosi; una rupe, un sasso, la minima irregolarità che incontri, si arresta, rifluisce, si raggrinza, si increspa, si arruffa, si contorce in tutti i sensi. Le onde di sopra si accavallano su quelle di sotto, si rotolano insieme, si stirano, si torcono a spirale. Ne nasce un caos immenso, indescrivibile. Il pittore butta lontano il pennello, il letterato la penna. Per intendere che sia una di quelle correnti che si chiamano di lava a corda, bisogna vederla. Quella del 1858 è la più bella di quante ho vedute, e la più bella, io penso, di quante si possono vedere. Talora è un immenso cortinaggio, un ammasso di vele rovesciate sul lido in preda al vento, che si trastulla ruzzando fra i morbidi teli; talora è un cantiere immenso di gomene, di sarte, d’ogni foggia e d’ogni dimensione, disposte per armarne una flotta; talora.... ma poi la fantasia più scapigliata si trova troppo impotente a fronte della realtà, quando voglia descrivere quelle curve flessuose e bizzarre, quei cordami senza fine e senz’ordine, quei gruppi, quegl’intrecci inestricabili, tutto quel complesso di mobile immobilizzato, disteso sopra una superficie di due o tre chilometri quadrati. E pensare che tutto è un sol vomito di quel nero gigante, la cui bocca fuma ancora rantolando sulle nostre teste!»

«E tutto codesto è di pece?» riflettè la Biggia, che era rima-