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126 LIBRO SETTIMO — 1814.

adunarsi armati nella campagna, entrare nelle città, togliere di officio i magistrati, e mutargli in altri, gridare caduto l’impero di Murat e risorto quello di Ferdinando Borbone, re costituzionale; correre le vicine province, e avanzare nel regno con gli ajuti di altri settarii e della fortuna. La più parte dei desiderii si avverò: tutta intera quella estrema provincia, fuorchè la città capitale, fu ribellata; e procedeva il cambiamento nel vicino distretto di Chieti, se i provvedimenti dell’intendente Montejasi, ed il sollecito muovere di alcune squadre di gendarmi non avessero impedito ai rivoltosi di Teramo il passaggio del fiume di Pescara. Sedizione sì vasta non aveva costato nè delitti, nè fatiche: i magistrati di Gioacchino nella ribellata provincia erano usciti di posto chetamente; i novelli esercitavano senza vendette o superbia; le leggi erano mantenute; la mutazione d’impero e di ministri era avvenuta in un giorno: indizii tutti di universale consentimento, pericolo maggiore al governo. Così stavano le cose in Abruzzo quando il barone Tulli, fuggitore, venne nunzio a Gioacchino.

Essendo nell’esercito molti soldati abruzzesi, uniti a reggimento, fu prima cura del re nascondere quei casi. Dipoi consigliando i rimedii, chi dei ministri inchinava al rigore, chi alle blandizie; il re, esacerbato, stava coi primi, ma il pericolo, a vederlo, era tanto grande che si adoperarono al tempo stesso perdoni e pene, premii e minacce. Un decreto agguagliando le adunanze di carboneria a cospirazioni contro lo stato, puniva di morte gli antichi carbonari che si adunassero, come i nuovi che si ascrivessero alla setta. La reggente mandava in Abruzzo le più fide squadre, e due signori abruzzesi accreditati per bella fama di politiche virtù, il cavaliere Delfico e il barone Nolli, mentre il re inviava dal campo il generale Florestano Pepe, autorevole per grado, benigno per indole.

Ma quella sedizione senza nerbo di forze interne o esteriori, impeto primo e sconsigliato di accesi ingegni, da sè stessa indeboliva e cadeva. Gli antichi magistrati di Murat ripigliavano le sedi senza contrasto cedute; gl’intrusi le ricedevano più facilmente, le squidre mandate di Napoli vi giunsero dopo la calma; il Delfico, grave di anni, si arrestò; ed al general Pepe fu surrogato il generale Montigny francese, violento, maligno. Avvegnachè intesa da Gioacchino la improvvisa vicenda, non più temendo dei ribelli, volle ad esempio aspramente punirli; rivocò le blandizie, afforzò il rigore, e molte morti, molte pene, lacrime ed afflizioni furono il fine di quel fanciullesco rivolgimento.

LXIV. Dalle cose d’Italia erano quelle di Francia assai diverso; qua politica molta e poca guerra, là politica quasi nessuna e guerra grandissima; i congressi europei oramai sciolti, i destini del mondo in mano alla fortuna dell’armi. In un tempo che questa si mostrò