Pagina:Storia della letteratura italiana I.djvu/285

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Da questa situazione sono uscite le due più profonde canzoni del medio evo, l’una poco nota, l’altra assai popolare, amendue poco studiate, l’una che incomincia:

Di pensiere in pensier, di monte in monte;

l’altra che incomincia:

Chiare, fresche e dolci acque.

Se il Petrarca avesse avuto piena e chiara coscienza della sua malattia, di questa attività interna inutile e oziosa, una specie di lenta consunzione dello spirito, impotente ad uscir da sè e attingere il reale, avremmo la tragedia dell’anima, come Dante ne concepì la commedia, una tragedia, nella quale il medio evo avrebbe riconosciuto la sua impotenza e la sua condanna; tra’ dolori della contraddizione vedremmo il misticismo morire, spuntare l’alba della realtà, il senso o il corpo, proscritto e dichiarato il peccato, ripigliare la parte che gli tocca nella vita. Ma nel Petrarca la lotta è senza virilità. Gli manca la forza che abbondò a Dante d’idealizzarsi nell’universo; e rimanendo chiuso nella sua individualità, gli manca pure ogni forza di resistenza: sì che la tragedia si risolve in una flebile elegia. Il poeta si abbandona facilmente, e prorompe in lacrime e in lamenti. Acuto più che profondo non guarda negli abissi del suo male e si contenta descriverne i fenomeni condensati in immagini e in sentenze rimaste proverbiali. Tenero e impressionabile, capace più di emozioni, che di passioni, non dimora lungamente nel suo dolore, chè vien presto l’alleviamento, lo scoppio delle lacrime e de’ lamenti. Artista più che poeta, e disposto a consolarsi facilmente, quando l’immaginazione abbia virtù di offrirgli un simulacro di quella realtà di cui sente la privazione: