Pagina:Storia della letteratura italiana II.djvu/422

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Gli odo già dirmi: o vate nostro, in pravi
     Secoli nato, e pur create hai queste
     Sublimi età che profetando andavi.

Ci è dunque nella tragedia alfieriana uno spirito di vita, che scolpisce le situazioni, infoca i sentimenti, fonde le idee, empie del suo calore tutto il mondo circostante. Ci è lì dentro l’uomo nuovo, solitario, sdegnoso verso i contemporanei, e che pure s’impone ai contemporanei, sveglia l’attenzione e la simpatia. Gli è che se quest’uomo nuovo non era ancora entrato nei costumi e nei caratteri informava di sè tutta la cultura, era vivo negl’intelletti: una parentela c’era fra lo spirito di Alfieri e lo spirito del secolo. Perchè dunque Alfieri si sente solo? perchè guarda con occhio di nemico il suo secolo? gli è per questo che il nuovo uomo era in lui un modello puro, concretato nella sua potente individualità, divenuto non solo la sua idea, ma la sua anima, tutta la vita, e che lo vede nella pratica manomesso e contraddetto da quelli stessi, che pur con le parole lo glorificavano. Perciò sente uno sdegno più vivo forse verso i democratici facitori di libertà, che verso re e papi e preti, e fugge la loro compagnia, vergine di lingua, di orecchi e di occhi persino:

Non l’opra lor, ma il dir consuona al mio.
     

E muore tristo, maledicendo il secolo, e confidando nella posterità:

Ma non inulta l’Ombra mia, nè muta
     Starassi, no: fia de’ tiranni scempio
     La sempre viva mia voce temuta.
Nè lunge molto al mio cessar, d’ogni empio
     Veggio la vil possanza al suol caduta,
     Me forse altrui di liber uomo esempio.