Pagina:Storia di Milano II.djvu/29

Da Wikisource.

un tal riscontro rimase pensieroso il giovane Francesco, e dopo qualche taciturnità interpellò il messaggero: Dimmi; con quale aspetto parlò mio padre, che t’incaricò di quest’ordine? Il messaggere rispose ch’egli era assai incollerito. Non lo comanda adunque mio padre, disse Francesco; questo è l’impeto di un uomo sdegnato, e mio padre a quest’ora è pentito di aver detto così: indi, fatti condurre alla sua presenza i prigionieri, poichè mio padre, diss’egli, vi perdona, io pure vi perdono. Siete liberi; se volete restare al nostro stipendio, vi accetto come prima, se volete partire, fatelo. La sorpresa di que’ soldati, che si aspettavano il supplizio, fu tale che, lacrimando e singhiozzando, giurarono fede alle insegne sforzesche, e in ogni incontro poi se gli mostrarono affezionatissimi e valorosi. Quando Sforza intese il fatto, confessò che Francesco era stato più prudente di se stesso. Questo avvenimento ci fa risovvenire delle Forche Caudine: lo Sforza fu assai più avveduto che non si mostrò Ponzio. Francesco amava e venerava suo padre, e con ragione. Mentre appunto nel regno di Napoli Francesco stava alle mani coi nemici, vennegli il crudele annunzio che, poco discosto, Sforza suo padre, volendo soccorrere un suo paggio, erasi miseramente affogato nel fiume, che stavano passando. Questa era la massima prova che potesse dare della padronanza di se medesimo, Francesco, soffocando l’immenso dolore, e dirigendo la battaglia con mente e faccia serena, come fece. Questi fatti bastano