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leggendo cioè Renan e Strauss, il primo con diletto, il secondo sopportandolo come una punizione. Ne dico qui solo per rilevare quale grande desiderio m’attaccasse ad Augusta. E lei questo desiderio non indovinò quando mi vide nelle mani i Vangeli in edizione critica. Preferiva l’indifferenza alla scienza e così non seppe apprezzare il massimo segno d’affetto che le avevo dato. Quando, come soleva, interrompendo la sua toilette o le sue occupazioni in casa, s’affacciava alla porta della mia stanza per dirmi una parola di saluto, vedendomi chino su quei testi, torceva la bocca:

— Sei ancora con quella roba?

La religione di cui Augusta abbisognava non esigeva del tempo per acquisirsi o per praticarsi. Un inchino e l’immediato ritorno alla vita! Nulla di più. Da me la religione acquistava tutt’altro aspetto. Se avessi avuto la fede vera, io a questo mondo non avrei avuto che quella.

Poi nella mia stanzetta magnificamente organizzata venne talvolta la noia. Era piuttosto un’ansia perchè proprio allora mi pareva di sentirmi la forza di lavorare, ma stavo aspettando che la vita m’avesse imposto qualche compito. Nell’attesa uscivo frequentemente e passavo molte ore al Tergesteo o in qualche caffè.

Vivevo in una simulazione di attività. Un’attività noiosissima.

La visita di un amico d’Università, che aveva dovuto rimpatriare in tutta furia da un piccolo paese della Stiria per curarsi di una grave malattia, fu la mia Nemesi, benchè non ne avesse avuto l’aspetto. Arrivò a me dopo di aver fatto a Trieste un mese di letto ch’era valso a convertire la sua malattia, una nefrite, da acuta