Pagina:Svevo - Senilità, 1927.djvu/264

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d’animo era risultato dal bisogno di scusarsi e di assolversi. Ne sorrise come di cosa comicissima. Come erano stati colpevoli lui e Amalia di prendere la vita tanto sul serio!

Alla riva, dopo di aver guardato l’orologio, si fermò. Qui il tempo appariva peggiore che non in città. Al sibilare del vento si univa imponente il clamore del mare, un urlo enorme composto dall’unione di varie voci più piccole. La notte era fonda; del mare non si vedeva che qua e là biancheggiare qualche onda che il caos aveva voluto infranta prima di giungere a terra. Sui battelli, alla riva, si era sull’attenti e si vedeva qualche figura di marinaio, in alto, su quegli alberi che facevano la solita varia danza nelle quattro direzioni, lavorare nella notte e nel pericolo.

Ad Emilio parve che quel tramestìo si confacesse al suo dolore. Vi attingeva ancora maggiore calma. L’abito letterario gli fece pensare il paragone fra quello spettacolo e quello della propria vita. Anche là, nel turbine, nelle onde di cui una trasmetteva all’altra il movimento che aveva tratto lei stessa dall’inerzia, un tentativo di sollevarsi che finiva in uno spostamento orizzontale, egli vedeva l’impassibilità del destino. Non v’era colpa, per quanto ci fosse tanto danno.

Accanto a lui un grosso marinaio piantato solidamente sulle gambe coperte di stivaloni, urlò verso il mare un nome. Poco dopo gli rispose un altro grido; egli allora si gettò su una colonna vicina, ne slegò una gomena che v’era attortigliata, l’allentò e