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LIBRO QUARTO 223

potè al romore; chi padre e madre, chi fratello o parente o amico piangea; e di qualunque per altro non si rivedeva, si stava con tremito tanto maggiore, quanto più incerto, sin fu chiaro cui la rovina cogliesse.

LXIII. Scoprendosi quelle rovine ciascun correva a baciare, abbracciare i morti suoi: e bene spesso, se per viso infranto, età o fattezze, nel riconoscerli erravano, ne combattieno. Cinquantamila persone vi furono, che sfragellate, che guaste. Il senato proibì tal festa farsi per innanzi da chi avesse meno di diecimila fiorini d’oro; nè teatro fondarsi se non in ben tastato suolo. Atilio fu mandato in esiglio1. Tennero i grandi ne’ primi giorni le case aperte piene di medici e d’unguenti. La città mesta pareva quella de’ tempi antichi dopo le grosse giornate, quando erano i feriti con gran carità e sollecitudine governati.

LXIV. Non erano asciutte le lagrime, che Monte Celio arse, e alterò più che mal la città: „Pistolente anno, dicevano, questo essere, e dal principe in mal punto preso consiglio di star fuori della città;„ de’ casi di fortuna, come fa il volgo, incolpandolo. Ma egli valutò e pagò i danni; e con tal pasto gittate in gola2 a Cerbero, lo racchetò.

  1. Poca pena a strazio di cinquantamila persone.
  2. Con questo ingoffo, era detto più breve, e proprio. Voce fiorentina non goffa, ma composta (cosa rara in volgare) di tre, in gulam offa. Ma l’amor di Dante m’ha fatto quella sua bella similitudine ombreggiare.

    Qual’è quel cane ch’abbaiando agugna,
    E si racqueta poi che ’l pasto morde,
    Che solo a divorarlo intende e pugna;