Pagina:Tartufari - Roveto ardente, Roma, Roux, 1905.djvu/24

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zando anche lui la voce, gridò con accento di furore:

— Lasci tranquilla Flora, se non vuole che anch’io perda la testa!

Il conte Innocenzo eresse di scatto la prestante persona e fece il gesto di alzare il pugno chiuso sopra il dottore. Questi si rizzò sulla punta dei piedi, sollevò il capo per avvicinarsi al viso del conte, e ripetè, sfidandolo:

— Flora è più disgraziata di lei; più disgraziata di tutti; Flora è una vittima che dovrà por tare tutta la vita il peso delle bricconate di sua madre e della pazzia di suo padre. Giacchè lei non vuole consolarla, non la tormenti almeno!

Il vecchio afferrò il dottore per le spalle, lo sospinse verso la porta d’ingresso, lo cacciò fuori con urto brutale e stava per chiudere il battente, allorchè Flora, che finalmente poteva gridare, si dette a ripetere con urlo di strazio:

— Ti rivoglio, papà! Parlami, papà! Papà mio! Papà! Papà! — e, ad ogni nuova invocazione, il grido si faceva più squillante, più lungo, più ferocemente disperato, quasichè la meschinella sperasse destare suo padre dal sonno ultimo, in cui egli si era volontariamente sommerso.

Il volto del conte assunse da prima una espressione di fastidio, come se all’orecchio di lui giungesse lo stridore di una lima sul ferro; poscia la forte maschera solcata di rughe, dove gli occhi ardevano simili a due schegge di carbone acceso, si scompose, le labbra si contrassero, il petto gli si gonfiò in un singulto cupo e sonoro, e il vecchio aperse le braccia, forse per dire a qualcuno d’invisibile che egli cedeva, che era vinto, e si lasciò cadere, ripiegato in due, sopra una seggiola.