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canto ottavo 149


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     — Anima bella, disse, e dormigliosa,
che paventi? che miri? I’ son la Luna,
ch’a dormir teco in questa piaggia erbosa
amor, necessitá guida e fortuna.
Tu non ti conturbar: siedi e riposa;
e nel silenzio de la notte bruna
pensa occultar l’ardor ch’io ti rivelo,
od isperimentar l’ira del cielo. —
56
     — O pupilla del mondo, in cui la face
del sol s’impronta, pastorello indegno
son io, disse il garzon; ma se ti piace
trarmi per grazia fuor del mortai segno,
vivi sicura di mia fé verace;
e questo bianco vel te ne sia pegno,
ch’a mia madre Calice Etlio giá diede,
mio padre, in segno anch’ei de la sua fede. —
57
     Cosí dicendo, un vel candido schietto,
che di gigli di perle era fregiato,
e ’l tergo in un gli circondava e ’l petto
giú da la spalla destra al manco lato,
porse in dono a la dea; ch’ogni rispetto
giá spinto avea del cor tutto infiammato,
e, come fior che langue allor ch’aggiaccia,
si lasciava cader ne le sue braccia.
58
     Vite cosí non tien legato e stretto
l’infecondo marito olmo ramoso,
né con sí forte e sí tenace affetto
strigne l’edera torta il pino ombroso;
come strigneansi l’uno all’altro petto
gli amanti accesi di desio amoroso:
saettavan le lingue in tanto il core
di dolci punte, che temprava Amore.