Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo II, Classici italiani, 1823, II.djvu/210

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Quintiliano ancora di ciò si duole: e che giova, dice (l. 12, c. 11), lo starsi per tanti anni, come fanno moltissimi, declamando nelle pubbliche scuole, e affaticarsi tanto intorno a cose false, mentre ci può bastare l’apprendere in poco tempo le leggi di ben parlare? Se a questi tempi visse Petronio lo scrittor della Satira mentovata di sopra, una somigliante pittura ci ha fatta egli pure di cotali inutili esercizi allora usati, Io penso, ei dice (Satyr. c. 1), che nelle scuole i giovani divengano in tutto stolti; perciocchè nè veggono , nè ascoltan nulla di ciò che suole comunemente ari adì re; ma solo corsari che con catene stanno sul lido, e tiranniche comandano a’ figli di troncare il capo a’ lor genitori, e oracoli renduti in occasione di peste coll’ordine if immolare tre, o anche più vergini. Il più strano si è , che lo stesso Seneca il retore, da cui abbiam ricevute molte di cotali declamazioni, confessa ei stesso che il declamare non recava vantaggio alcuno; e che anzi avveniva il più delle volte che alcuni dopo essersi in ciò esercitati per lungo tempo, passando poscia a perorare innanzi a’ giudici, appena parevano saper parlare. Avvezzi a ragionare solamente tra le pareti domestiche e innanzi a’ giovani loro uguali, che volendo essere applauditi da tutti, applaudivano a tutti, e a trattare argomenti finti a capriccio, e nulla somiglianti a quelli che agitavansi ne’ tribunali, appena entravan nel foro, e vedevansi in un arringo tanto più pericoloso alla lor fama, impallidivano, si turbavano; e que’ che erano stati in addietro declamatori eloquenti, mostravansi freddi e languidi oratori (proana. I. 4 Contros>.).