Pagina:Tragedie, inni sacri e odi.djvu/401

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nota 371

     Noi qui dentro di ferro intente reti
     Chiudono; a noi da invidïosi tetti,
     A noi vien tolta la superna luce.
     Le fronde, ahimè!, vediam; le non concesse
     Siepi vediamo, e la pennuta schiera,
     Cui non c’è dato mescolarci. All’aure
     Se mai talvolta immemori spicchiamo
     L’ala, respinta dai tristi cancelli.
     Subitamente si ripiega e cade.
     Nessuno scherzo, nessun dolce amore
     Ci riporta l’april; ninna famiglia
     Di garruletti nidi a sè ci chiama.
     Non l’irriguo ruscel, non il bisbiglio
     Di lieta fonte; ci provvede ignave
     Acque un meschino canaletto. Oh crude
     Esche! Rapiti alla dolcezza vostra,
     D’eterna prigionia strasciniam gli ozi!


I due distici al prof. Michele Ferrucci, dell’Università di Pisa, furon pubblicati dal Bonghi (I, 291), di su l’autografo. Con qualche variante li aveva già fatti conoscere lo Sforza, in una nota all’Epistolario di A. M., II, p. 265; dove aggiunse la seguente versione di Andrea Maffei:

Tali arditi si dan, che di perdono
     Degni per poco, vivadio, non sono,
E pretendono lode in premio al verso!
     Tu che la merti, da costor diverso,
Perdono implori. È doppio error; ma bello,
     Nobile questo, e miserabil quello.


Credo infine non inutile riferire, se non foss’altro come documento storico nobilissimo, l’abbozzo di canzone al Manzoni ispirato dalla sommossa milanese del 20 aprile 1814, in cui fu trucidato il ministro Prina, e dalla successiva convocazione dei Collegi Elettorali. Fu disseppellito dal Bonghi, e stampato nel 1883 tra le Opere inedite o rare di A. M., v. I, p. 145 ss. discute anch’esso dei fremiti misogallici del grande Astigiano; e si potrebbe confrontarlo con l’epica canzone, che l’Alfieri scrisse nel 1789 sulla distruzione della Bastiglia, Parigi sbadigliato.

Il poeta vi si fa interprete del sentimento popolare. Aveva taciuto fin allora, perchè a nulla sarebbe valso l’ardire; infranto il bavaglio, leva alta la voce contro l’ipocrito dominatore, che ci teneva schiavi nel sacro nome della libertà. Chè schiava era l’Italia, costretta ogni anno a deporro il suo tesoro (esecutore il Prina) «sull’avara lance di Brenno»! E i figli erano strappati ai genitori, noverati a branco, spinti contro eserciti innocenti di fratelli; e morivano lontano.