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gamo, nella storica casa dei Camozzi. E protagonista ne fu l’eroe, a cui nessuna fantasia di poeta potrebbe aggiungere un nuovo raggio di poesia, e la cui altissima poesia nessun poeta è riuscito finora, pur in qualche minima parte, a tradurre in versi.

L’aneddoto fu narrato dal compianto, e caramente rimpianto, Gino Visconti Venosta, in quel prezioso e attraente volume dei suoi Ricordi di gioventù1.

Don Gino — perchè non chiamarlo ancora così, come noi intimi solevamo chiamarlo? — aveva assunto l’ufficio, nei primi mesi di quell’anno fortunoso, di Commissario regio per la Valtellina. I Visconti Venosta eran di Tirano; ed Emilio, il fratello maggiore, era Commissario regio al campo di Garibaldi. Questi aveva trasportato il suo quartier generale a Bergamo; ed ivi andò a parlargli don Gino, per prender gli accordi circa l’aspettata o agognata invasione della Valtellina.

«Garibaldi mi accolse», egli narra. «con quel piglio franco e cortese, con quel sorriso che sapeva essere così sereno, e con quella sua voce meravigliosa, la più bella voce d’uomo che io abbia mai udito: doti che spiegavano il fascino irresistibile che egli esercitava su tutti, anche sui più scontrosi». Furono interrotti dal capitano Corte, il quale veniva a informare Garibaldi ch’erano stati fatti prigionieri alcuni ufficiali austriaci. Il Generale ordinò che gli si conducessero subito innanzi.

Intorno al nome di Garibaldi correva, o era fatta correre, fin dal 1848, una paurosa e sciocca leggenda, che dell’eroico o generoso condottiero faceva qualcosa di brigantesco o di diabolico. Al solito, pei nostri cari vicini e padroni, noi, quando eravamo qualcosa, eravamo dei Fra Diavolo! Così, quei disgraziati ufficiali vennero avanti con l’aria di chi sia condotto alla presenza d’un qualche feroce capo di filibustieri, capace Dio sa di quali enormezze. Due di essi erano in preda a un tremito nervoso che non riuscivano a

  1. Mi si consenta di rimandare chi ami di conoscere un po’ da vicino questo valentuomo, alla mia commemorazione: Visconti Venosta minore, nella Lettura del maggio 1915.