Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/159

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154 iginia d'asti

Astigian nato, ghibellin patrizio.
E quello ancor son io, che le sventure
De’ passati anni al trepidare apposi
Di chi la signoria tenne dell’armi;
E il regno della forza, unico, dissi,
Di giustizia esser regno, allorchè infette
Membra vuol tronche la città, o perisce.
Me dunque detrattor, certo, al robusto
Governo suo temer non debbo Evrardo.
No, fratel: ti compiansi, e fra le stragi
T’ammirai pure, e carità di patria
Pareami in te ciò ch’altri empietà noma.
Ma sì lontan fra la giustizia il varco
E la clemenza fia? sì a lungo vero
Di sparger sangue il lagrimevol uopo?
E il tristo esperimento, ahi, di perigli
Pur troppo non sognati! immaginari
Non creeríane al nostro occhio atterrito?
Un editto feroce oggi il senato
Mio malgrado proclama. A tal editto
Consentiresti? nol cred’io: severa,
Ma non tirannic’alma la tua estimo.
Di quell’editto chiedi: odilo: e il nuovo
Consolato vestir, tu il niegherai.
Evrardo.Che?
Roffredo.           Sebben grande sia pel santo vecchio
La riverenza del senato, or vieta
Alta ragion con lui starci concordi.
L’editto ch’ei riprova a lungo dianzi
S’agitò nel consesso, e i più il sanciro:
Eccol. — T’avanza, o banditor:1 l’annuncia
Dalla tribuna alla città: — fia noto
Così ad entrambi i consoli proposti.
Il Bandit.2«Palese a’ senatori è che si oltraggia
Da taluni la legge, e clandestino

  1. Il Banditore s’avanza e prende l’editto.
  2. Va alla tribuna, suona la tromba per adunare il popolo, e poi legge ad alta e ben distinta voce.