Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/281

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276 leoniero da dertona.

Eloisa.                                                  Ahi! credeva
Arrigo troppo in suo valor. Soletto
Ieri a tard’ora in sul destrier movea
All’ostello di Ghieimo. Io di sciagure
Presaga il cor, spesso gliel dissi: «Oh, mai
Scompagnato non veggianti a tard’ora
Le infide vie della città!» — «Baldanza,
Diceva ei, ne trarrebbe Enzo ove segno
In me scorgesse di timor; nè ardito
Enzo è ancor tanto, ch’anzi al popol levi
La sacrilega man contro al tribuno.»
Lassa! negro jersera e tempestoso
L’aer favoria gli agguati. A’ focolari
Suoi già raddotto il popol era, e s’anco
Aggiravasi alcun, notturne guardie
Cacciando il gían. Così un canuto artiero
Inseguito è da quelle. Il tolgon dense
Tenebre all’altrui vista, e per macerie
S’appiatta, donde vede in sulla piazza
Brigata accorrer di cavalli, e assalto
Intende, e molte grida, e udir fra queste
Crede la voce del tribun. Non trasse
Quindi più al tetto suo, ma cautamente
Andò al castello, e poichè assente Arrigo
Seppe, tutto narrò. Celommi Auberto
Sino al mattin tanta sciagura; io poscia
Al vecchio artier parlai. Tornano i messi
Ch’iti d’Arrigo erano in cerca:— a Ghielmo
Jernotte uom non comparve! — Insana quasi
Corro alle soglie del fratel: «Che festi,
Che festi, grido, dello sposo?»— «Ei vive,
Rispose, e in lui staría salvarsi.» — E disse,
Mie disperate lagrime spregiando,
Che, o l’usurpata rocca il tribun renda,
O reo di morte egli è.
Guidello.                                        Sir della rocca
Il popol è.
Eloisa.                         Ciò pure a lui diss’io,