Pagina:Tragedie di Eschilo (Romagnoli) II.djvu/148

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LE COEFORE 145

Che morte dia qual data fu m’ingiunse:
295che come tauro gli usurpati beni
irrompa a vendicare. — E s’io recalcitro,
io stesso, disse, colpito da molti
mali orribili, il fio ne pagherò.
Disse che il suolo esizïali doni
300germoglierebbe ai cittadini, e morbi
su le mie carni con selvaggi denti
piomberebbero, scabbie roderebbero
il mio primiero aspetto; ed oltre a ciò
i miei capelli bianchi diverrebbero.
305Ed altre offese dell’Erinni disse,
vendicatrici del paterno sangue:
l’occhio che brilla e spia giú dalle tènebre —
ché dei defunti il tenebroso strale,
dei consanguinei che vendetta invocano
310di loro morte, la rabbia, ed il vano
terror notturno, i cuor’ scompiglia ed agita —
e l’esser via dalla città bandito
sconce le membra dalla bronzea sferza —
né chi tale è, convivî piú partecipa,
315né libagioni sacre. E dagli altari
lunge lo scaccia l’invisibile ira
del padre; e nessun l’ospita; e nessuno
lo vuol compagno. E d’ogni onore privo,
privo d’amici, infine muore, tutto
320dal rovinoso morbo arso e consunto4.
Or non debbo aver fede in questi oracoli?
E se pure io non l’abbia, è forza ch’opri:
ché molte brame in un sol punto cadono