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lologo), una seconda, lungamente, si libra in metri puramente lirici, e, dunque, cantati.

Analogamente, dopo la scena del riconoscimento, appena Ione s’è deciso a riconoscere Creusa per propria madre, ella comincia a cantare, e col canto seguita ad esprimere i proprî sentimenti per tutta la scena, mentre Ione le risponde in trimetri giambici, e cioè, dovremmo credere, sebbene non ne abbiamo le sicurezza assoluta, semplicemente declamando.

Qui, dunque, si afferma il principio estetico, che negli altri due grandi drammaturgi albeggiava incerto, che quando le emozioni sono arrivate ad un alto grado d’intensità, non basta piú la semplice declamazione ad esprimerle, ma occorre il sussidio del canto. E si afferma con tanta risolutezza, che il mutamento dalla declamazione al canto avviene una volta addirittura in mezzo ad una battuta (1439-1442: i versi 1439-1440 sono trimetri giambici, i 1441-1442 in metri lirici). Il che, fra parentesi, potrebbe significare che, almeno negli attacchi, la melodia fosse abbastanza vicina alla declamazione, in maniera che ben graduato e sfumato riuscisse il passaggio dall’uno all’altro mezzo d’espressione.

Ad ogni modo, la musicazione di queste monodie, qualunque ne riuscisse poi l’effetto estetico, trovava una giustificazione teorica: il bisogno di salire ad una vetta inaccessibile alla sola parola. Ma nulla, se non un mèro edonismo, giustificava che fosse cantato il primo monologo di Ione. Leggiamone la prima strofe, senza lasciarci fuorviare dall’abbondanza di parole belle o magnifiche. «Rampollo testé fiorito del vaghissimo alloro», «chioma sacra del mirto», son belle e pittoresche perifrasi; ma, in conclusione, qui si parla di una scopa, si parla di spazzare. E se ne parla in musica.

Si obietta facilmente che solo in musica poteva esser detto questo brano, che appartiene ad una forma tradizionale, la pàrodos, soggetta ai suoi imperativi tecnici. Ma facilmente si